Carmen Weiz

3.

Mary Lou

Serie Swiss Angels – Romanzi rosa con un tocco di New Adult*

Serie Swiss Legends – “La voce dell’innocenza” – Thriller poliziesco**

Cliffhanger

(*) Questo racconto è collegato al primo libro della serie Swiss Angels. Potrebbe essere considerato un “prequel”.

(**) Questo  capitolo appare così com’è stato scritto nel terzo libro della serie Swiss Legends, collegando così le due serie.

Estremo nord della Svizzera, al confine con la Germania.

 

«Urs, svegliati.»

«Mmmmm» fu l’unico suono che riuscii a far uscire dalle mie labbra, mentre mi giravo sull’altro lato dando la schiena alla signora Bethli, mia moglie. La conoscevo da quasi cinquant’anni e, purtroppo, sapevo che quando iniziava con quella lagna, avrebbe continuato fino a quando non mi fossi alzato. Le piaceva svegliarmi per qualsiasi ragione: per il dolore ai reni, per l’insonnia, per qualche scricchiolio che aveva udito, o per il motivo che detestavo di più in assoluto. Non mi costava niente provare a continuare a dormire, perciò tirai ancora di più la trapunta provando a coprirmi la testa. La furba, probabilmente anticipando la mia mossa, si era seduta sul bordo del letto, proprio sopra a essa. Mi stavo per assopire nuovamente quando la sua mano mi scosse con dolcezza, ma usando l’energia necessaria per farmi capire che non si sentiva minimamente intimorita dal mio comportamento.

«Penso che sia successo qualcosa.»

«Che cosa potrebbe succedere in piena notte, Bet?» Sbuffai arrabbiato, mentre mi giravo a pancia in su lentamente, perché il dolore alla schiena in quegli ultimi giorni mi stava facendo impazzire. Del resto, non avevo più trent’anni, e il lavoro in fattoria richiedeva robustezza e impegno. In verità, non avevo nemmeno più cinquant’anni, ma avevo smesso di tenere il conto di certe sciocchezze dopo il mio sessantesimo compleanno. I nostri figli erano già adulti e, beati loro, avevano trovato da lavorare in città. Oltre a noi due, nessuno voleva più occuparsi della vecchia fattoria.

Carmen Weiz

Aprii un solo occhio e aggiunsi al mio viso l’espressione più miserabile che riuscii a fare, nell’ultima inutile speranza che lei provasse pietà. Mi accorsi, però, che aveva già acceso la luce nel corridoio, il che voleva dire che era finita, non c’era più niente che potessi fare. Era meglio alzarsi e andare a vedere cosa volesse o non mi avrebbe più lasciato in pace. Avevo fretta di tornare a letto perché avrei dovuto svegliarmi prima dell’alba, se avevo intenzione di andare da Ralph per aiutarlo a sistemare la sospensione del suo vecchio trattore e finire il resto del lavoro in mattinata.

“«Vai, vai a vedere Urs. Sono così preoccupata.» Si portò le mani al cuore mentre aprivo la porta.”

La signora Bethli, saggiamente, si spostò indietro sul letto permettendomi di sedermi. Mi girai di lato gemendo e sbuffando in modo drammatico, era meglio che si sentisse in colpa per avermi tolto dal calduccio offerto dalla trapunta in una notte fredda come quella.

«Allora, qual è il problema oggi?»

Avevo già spostato le coperte, mi fermai aspettando che mi rispondesse. Ahhh, no… non poteva essere…

«Non dirmi che mi hai svegliato un’altra volta a causa di Mary Lou!»

La mia voleva essere una domanda, ma le parole mi uscirono come un’affermazione. Accesi la luce sul comodino, mentre appoggiavo i piedi per terra cercando le pantofole di lana. Il suo silenzio mi diede la risposta e, che Dio mi salvasse, era già riuscita a farmi incazzare e ci aveva impiegato solo una manciata di minuti. Usando entrambe le mani, sfregai i palmi sulla barba, grattandola come se volessi scorticarmi la pelle. La sua voce suonò piccola piccola.

«È solo che…»

«Solo che cosa?!» Notai che aveva avvolto lo scialle di lana attorno alle spalle, significava che, probabilmente, era in piedi da un bel po’.

«Penso che non stia bene. Cosa potevo fare?»

Bloccai la parolaccia che mi balenò in testa prima che potesse sfuggire dalle labbra. Alla fine dei conti quella era la mia signora, la madre dei miei adorati figli.

«Va bene… va bene… ho detto c-h-e  v-a  b-e-n-e!» ripetendo e scandendo sempre le stesse parole, provando a convincere più me stesso che lei. Mi alzai mentre lei mi aiutava a infilare un braccio nel pesante pullover di lana.

«Mi stai facendo, per caso, indossare questa roba perché pensi che io debba andare fuori a controllarla?»

«Per favore Urs, credo veramente che non stia bene. L’ho sentita lamentarsi, sai?»

Guardai verso il soffitto, implorando a qualcuno lassù di darmi qualche altro minuto di pazienza, o forse sarebbero servite delle ore, tante ore. Provai a farla ragionare constatando ciò che ritenevo ovvio.

«Come hai fatto a sentirla se eri qua dentro e tutte le porte e le finestre sono chiuse? È quasi inverno, non hai sentito il freddo che fa fuori, Bethli?»

Il mio corpo protestò per le poche ore di sonno, mentre strisciavo i piedi, uno davanti all’altro, uscendo dalla stanza e avvicinandomi all’atrio che mi avrebbe portato alla scala. Lei mi seguì da vicino, stringendosi lo scialle sulle spalle.

«Appunto, Urs! Prima di venire a letto l’ho controllata, e mi era sembrata sofferente. È proprio a causa di tutto questo freddo che credo non stia bene, forse ha le coliche, secondo me è colpa del mangime nuovo che hai comprato…»

Non prestai nemmeno attenzione alle sue ultime parole mentre scendevo i gradini. Attraversai la sala da pranzo e mi fermai davanti alla piccola statua della Madonna che avevamo messo sopra al piedistallo vicino al camino. Feci il segno della croce e mormorai una breve preghiera con cui ringraziai Dio per un altro giorno di vita, anche se sapevo che sarebbe stato lunghissimo; era già iniziato e mancavano ancora parecchie ore prima dell’alba. Non mi costava niente fermarmi per qualche secondo e poi, almeno, avevo fatto zittire Bethli. Quel momento di silenzio era d’oro e mi sarebbe servito per calmare i nervi.

Quando la sentii sbuffare di fianco a me, capii che dovevo muovermi.

«Ho capito Bethli. Potresti smettere di sbuffare!?»

Si diresse in cucina, avvicinandosi alla porta sul retro. I profumi speziati delle erbe della cena precedente erano ancora sospesi nell’aria, mentre mi avvicinavo lei aveva già il mio cappotto tra le mani, pronto a farmelo indossare. Aprii la bocca per lamentarmi un’altra volta, ma mi anticipò venendomi vicino e, con tutta la velocità che le consentivano le sue dita artritiche, mi aiutò a prepararmi. Dopodiché, mi spinse verso la porta come se la casa fosse stata in fiamme.


«Vai, vai a vedere Urs. Sono così preoccupata.» Si portò le mani al cuore mentre aprivo la porta.

L’aria fredda mi fece sussultare, mi girai per tornare dentro, ma lei si era barricata dietro la porta, impedendomi di farlo. La vedevo attraverso il vetro che mi faceva segni con le piccole mani, come se mi spronasse a muovermi. Mi stava scacciando come faceva con le sue galline. Senza alternative, ficcai le mani dentro le tasche e marciai furibondo verso le stalle. La mia voce suonò rabbiosa persino alle mie orecchie.

«Maledetta mucca. Lo giuro su Dio…», guardai verso il cielo stellato con la mano destra sopra il cuore per confermare la solennità delle mie intenzioni, «che se questa stupida bestia sta facendo solo i capricci, il prossimo giorno di festa diventerà una gigantesca grigliata.»

I miei piedi scricchiolarono sul ghiaccio, feci attenzione a non scivolare anche se le pantofole avevano la suola in cuoio, perché una caduta del genere alla mia età poteva finire in un solo modo: male.

Un brivido mi avvolse quando mi ricordai cosa accadde a Helmut, il mio vicino, nonché compagno di tavolo nel nostro gioco domenicale di carte, lo Jass. Non avevo ancora avuto il coraggio di andargli a far visita al cimitero

La porta laterale del capanno si era bloccata a causa del freddo, dovetti intavolare una lotta con il telaio per qualche secondo prima che si decidesse ad aprirsi. Ciò non fece che aumentare la mia indignazione verso l’animale preferito di mia moglie, la sua stupida mucca. Lei amava tutti gli animali della nostra fattoria, ma Mary Lou era nata da noi, come se questo fatto potesse spiegare il suo assurdo attaccamento. A peggiorare ulteriormente le cose, non potevo fare nessun tipo di riferimento alla sua mucca preferita, perché mi veniva puntualmente ricordato che invecchiando, come insistevano a ripetere sempre i miei figli, ero diventato pure geloso. Aprii la porta e l’ormai famigliare odore di bestiame mi accolse. Accesi una sola luce, la più fiacca, per non destare tutti gli animali e, mentre aggiravo il trattore e camminavo verso il fondo del capanno, venni avvolto da un’ondata di rabbia ancora più intensa quando ripensai alle risate della mia famiglia, qualche settimana prima a pranzo, quando innocentemente avevo cercato qualcuno tra loro che potesse allearsi con me nella storia che volevo raccontare su Bethli e Mary Lou.

Se ricordavo bene, riguardava un articolo che Bethli aveva letto su una delle sue riviste, parlava del sesto senso degli animali, il che era, almeno secondo la mia opinione, una vera e propria buffonata. Che babbeo ero stato, ovviamente si erano schierati tutti dalla parte della madre e della mucca, e la domenica era terminata con loro che mi prendevano in giro fino a quando non tornarono a casa.

Passai davanti agli stabili dei miei due orgogli, i cavalli da lavoro Schleswig. Il meno pigro dei due, Piff, come mi piaceva chiamarlo, si affacciò con la sua criniera bionda oltre la finestrella, pronto a salutarmi. Poiché non udivo nessun rumore strano provenire dal recinto delle mucche mi fermai a grattargli le orecchie. Anche perché se fossi tornato a casa troppo in fretta, Bethli avrebbe pensato che non avevo controllato la sua mucca come si doveva e mi avrebbe fatto passare le pene dell’inferno.

“Fu come se uno spiffero avesse soffiato proprio sul mio collo, facendomi rizzare i peli della nuca.”

Accarezzai il suo muso morbido per qualche istante mentre gli parlavo.

«Quella mucca idiota ha combinato qualcosa?»

Come risposta, scosse la testa agitando la criniera e fece un nitrito mentre grattava uno zoccolo per terra.

«Ehi ragazzo, perché sei nervoso?» Il suo comportamento era strano, di solito era un animale mansueto e socievole. Era uno dei pochi che lasciavo avvicinarsi ai miei due nipotini, i bambini di Lars, il mio primogenito.

«Cosa succede?» Mi allontanai di qualche passo da lui sporgendo il busto all’indietro e, seguendo il suo sguardo, i miei occhi guizzarono a destra verso la stalla di Mary Lou e le altre due mucche. Fu come se uno spiffero avesse soffiato proprio sul mio collo, facendomi rizzare i peli della nuca. Tra i rumori degli animali ascoltai un suono, era solamente uno strusciare, seguito da un lamento. Ebbi la ferrea e inutile volontà di allontanare l’assurdo pensiero che mi passò per la testa: quel lamento sembrava umano.

Quando ero stato all’associazione degli agricoltori, avevo sentito delle storie di qualche collega, su al nord, che aveva avuto problemi con le gang di ragazzini che, a notte fonda, facevano baldoria nei capanni. Tuttavia il rumore che avevo sentito non somigliava per niente al chiasso che avrebbero fatto dei ragazzi, era tutt’altro, mi ricordò quello di un animale in punto di morte.

Fui avvolto da una sensazione di irrequietezza e, per la prima volta in quella notte, temetti veramente per Mary Lou.

Mentre mi avvicinavo, presi un secchio zincato pieno d’acqua che si trovava in un angolo e un forcone di ferro che usavo per spostare il foraggio. Se per caso ci fossero stati dei ragazzini nel mio capanno, gli avrei giocato un brutto scherzo.

Provando a fare il minimo rumore possibile mi avvicinai alla stalla. Due delle mucche alzarono la testa verso di me. Mary Lou, invece, mantenne la sua bassa, ma dal punto in cui mi trovavo non riuscivo a vedere cosa stesse guardando; qualunque cosa fosse si trovava in fondo alla stalla, oltre metà del suo corpo era nascosto dietro alle altre due mucche. Forse mi stavo sbagliando e il lamento che avevo sentito proveniva effettivamente da lei, pensai, mentre aprivo il cancelletto in legno e costeggiavo le altre bestie provando ad avvicinarmi. Mary Lou e io non eravamo mai stati grandi amici, se così si poteva dire. Le andai incontro aggirandola da dietro e, allo stesso tempo, facendo attenzione a mantenere una certa distanza, nel caso le fosse venuta qualche stramba idea di vendetta come, ad esempio, quella di scalciare. Mi ignorò completamente, intenta a osservare qualcosa che si trovava per terra, quasi davanti alle sue zampe anteriori. All’inizio pensai che stesse ancora mangiando, ma subito abbandonai l’idea perché, anche se aveva la testa quasi dentro alla mangiatoia, sapevo che a quell’ora era molto probabile che fosse vuota. Facendo attenzione, alzai prima una gamba e poi l’altra, sorpassando la vecchia vasca in ceramica che usavo come abbeveratoio. Le mucche dovevano bere almeno quaranta litri di acqua al giorno se si voleva avere latte in abbondanza. Le altre due mucche mi seguirono con la testa, probabilmente aspettando il fieno o che aprissi il cancello dall’altra parte, che le avrebbe portate verso la stalla delle pecore e di seguito al pascolo. Mary Lou continuava ostinatamente a guardare sotto di sé.

Per non farla spaventare, pronunciai qualche parola di cui non mi resi nemmeno conto, talmente ero concentrato a scoprire cosa avesse catturato, in quel modo, la sua attenzione. Appoggiai per terra il forcone e il secchio, ormai mi era chiaro che non si trattava di qualche bravata. Più mi avvicinavo e maggiormente dovevo piegare il collo per poter vedere oltre al suo corpo enorme e più l’ombra mi impediva di vedere con chiarezza cosa ci fosse per terra.

Carmen Weiz

«Mary Lou, cosa diamine stai combinando?»

Non alzò nemmeno la testa, intenta a spostare con il muso un fagotto lercio per terra, esattamente come avrebbe fatto con un vitellino appena nato, incitandolo ad alzarsi. Purtroppo, l’animale davanti a lei sembrava morto. Forse era un lupo, pensai, ma scartai subito l’idea, perché di solito i lupi attaccavano in branco e sicuramente avrebbero preferito le galline o le pecore, molto più facili da cacciare rispetto alle mucche. Senza considerare che Mary Lou non l’avrebbe mai trattato con la stessa premura che stava dimostrando in quel momento.

Qualcosa dentro di me mi spinse ad agire con prudenza, forse fu il mio sesto senso. Era da parecchio tempo che non mi capitava di sentire quella sensazione di sconforto, come se un cubetto di ghiaccio mi colasse sulla schiena. Come dotato di vita propria, il mio piede destro si arrestò prima di compiere il passo successivo, allo stesso tempo dentro di me qualcosa mi spronò a muovermi. Le due volontà si scontrarono, fu solamente per un attimo, poi il buon senso prevalse e mi avvicinai provando a spostare la testa della mucca o, almeno, ad allontanarla affinché potessi passare. Per un attimo fui sicuro di aver perso per sempre tutta la mia forza.

“Uno di quei momenti in cui si dice: non è vero, non può essere vero…”

 

Mary Lou sembrava aver messo le radici a terra, così, quando le arrivai abbastanza vicino, passai una gamba sotto il suo collo e con la punta dello stivale diedi un colpetto su quello che mi sembrò essere il centro del fagotto. Il corpo era completamente arrotolato in una delle coperte in pile che tenevo per i cavalli, per metà era finito di traverso sotto le sbarre che dividevano la stalla dallo spazio utilizzato dalle pecore. Dato che non si mosse, provai un’altra volta con un colpetto un po’ più energico. Per niente al mondo lo avrei toccato con le mani. Gli animali sofferenti potevano diventare impetuosi e attaccare senza alcun preavviso.

In seguito, davanti a me, si presentò una di quelle immagini che sapevo non avrei dimenticato fino al giorno della mia morte. Fu una sequenza di fatti della durata di pochi secondi, ognuno dei quali portò con sé una nuova sensazione di puro terrore, quanto bastava per cambiare completamente la vita di una persona. Uno di quei momenti in cui si dice: non è vero, non può essere vero…

Al terzo colpetto, l’animale che era sotto il fagotto ebbe un leggero sussulto, e mi raggiunse un rumore che fece drizzare i pochi capelli che avevo ancora in testa. Dalla mia bocca uscì una parolaccia tremante.

«Scheisse… merda!»

Feci un salto all’indietro, finii per sbattere contro il secchio d’acqua che avevo posato per terra, il quale si rovesciò sbattendo contro la vasca e rimbombando dentro il capanno. Bilanciai il corpo in avanti perché stavo per cadere all’indietro e, con le mani, mi aggrappai allo steccato per restare in piedi. Spaventata, Mary Lou si spostò e temetti che avrebbe finito per calpestarlo. Aprii le labbra provando a fare un profondo respiro, ma fu inutile. Quando ritrovai l’equilibrio, le mani volarono al cuore nel vano tentativo di rallentare i battiti, era così scompensato che per qualche secondo temetti di avere un infarto e morire proprio lì, in mezzo alle mucche. Mentre guardavo ancora sconvolto la mia scoperta, provando a far assimilare al mio cervello ciò che pensavo di aver sentito provenire dalla figura davanti a me, udii la sua voce, o forse era il suo rantolio. Erano soltanto balbuzie incoerenti che mi sembrarono parole, poi il suo corpo si mosse provando a girarsi, e una mano dal colore cadaverico apparve da sotto la coperta. Il fagotto intero sussultò in modo convulso, infine si afflosciò rimanendo inerme ai miei piedi.

In quello spazio angusto mi abbassai e tirai un lembo della coperta verso di me. Il mio cuore si fermò per un attimo.

«Cristo Santissimo…»

Davanti ai miei occhi apparve il viso cereo di un ragazzo, era così scarno che sembrò un cadavere che conservava ancora una parte della sua pelle. Mary Lou fece un altro passo di lato, un fascio di luce arrivò dentro la stalla fornendomi qualche dettaglio in più. La sua pelle brillava come se stesse sudando parecchio, gli occhi chiusi erano infossati nelle orbite che sembravano buchi neri in contrasto con il resto del viso, i capelli scuri erano bagnati e attaccati alla fronte. Mormorii sconnessi uscivano dalle sue labbra violacee, tra respiri affannosi come se delirasse, parole pronunciate in una lingua che ero sicuro di non aver mai sentito in vita mia. Quel povero ragazzo stava morendo davanti ai miei occhi.

Con la fretta che mi consentiva lo spazio angusto e facendo attenzione a non spaventare ancora di più le mucche, che avrebbero finito per calpestarlo, aprii il cancello che collegava la stalla a quella delle pecore.

«Dai su, andate di là!»

Le spronai, la voce tremava a ogni parola, la disperazione incisa in ogni sillaba, sentii il sudore correre giù per la schiena, anche se lì dentro faceva tutt’altro che caldo.

Quando la prima mucca passò oltre il cancello sapevo che le altre l’avrebbero seguita. Presi la coperta dell’altro cavallo ancora sul gancio, tornai dal ragazzo e lo coprii.

«Tieni duro, figliolo.»

Con la velocità che mi consentivano le mie vecchie gambe, corsi verso casa. La porta del capanno sbatté dietro di me, non mi fermai nemmeno per chiuderla.

«Bethli! Bethli!» Cominciai a urlare il suo nome mentre mi trovavo ancora a metà strada. Purtroppo con il fiatone sembravano più che altro degli squittii, ma ce la misi tutta per farmi udire.

«BETHLI!»

Finalmente vidi il suo viso spaventato affacciarsi alla porta della cucina. Le gambe protestarono, i polmoni chiedevano disperatamente una sosta, ma non gli diedi ascolto, non mi fermai nemmeno per un attimo.

La porta si aprì e lei venne fuori.

«Oh mio Dio, cosa è successo, Urs? Mary Lou?»

Riuscii faticosamente a scuotere la testa. «C’è un- » Cristo Santo, non riuscivo a far arrivare abbastanza aria ai polmoni. Sotto la luce del portico vidi il suo viso sbiancare. Le mie gambe tremarono mentre percorrevo gli ultimi metri, il corpo era ormai vicino al collasso. Iniziai a camminare, non riuscivo più a correre, le gambe stavano cedendo. Il mio corpo testardo si piegò leggermente in avanti, affranto portai le mani al petto, poi al collo mentre provavo a far uscire qualche altra parola.

«Chi-a-ma un-ambu-»

Il suo sguardo saettava da me al capanno, la sua bocca si aprì, poi si chiuse prima di pronunciare qualcosa. Entrai dopo di lei in cucina e mi lasciai cadere pesantemente sulla sedia davanti al tavolo. L’impatto di quello che vidi mi colpì in pieno, nascosi il viso tra le mani come se quel gesto potesse cancellare gli ultimi momenti vissuti. Il mio corpo iniziò a tremare in modo convulso. Fui consapevole solo superficialmente del fatto che si era fermata vicino a me, della sua mano che accarezzava la mia schiena.

«Respira Urs, per l’amor di Dio, respira uomo.»

Le parole uscirono come se qualcuno stesse schiacciando i miei polmoni senza pietà. «Chiama un’ambulanza.»

Carmen Weiz

Aprii gli occhi e vidi che annuiva, stava tentando a sua volta di calmare se stessa, la sua mano era già sul vecchio telefono sopra la credenza, poi prese gli occhiali che erano appoggiati di fianco e li infilò, cercando freneticamente il numero dell’ospedale nel suo quadernino. Feci un altro profondo respiro, quando ripresi l’aria dissi:

«Spiega che c’è un ragazzo in fin di vita nel capanno, quasi assiderato e che, forse, soffre anche di qualcos’altro.»

Il suo corpo sussultò e dalle sue labbra uscì un verso a metà tra sofferenza e spavento.

Bethli era ancora al telefono e stava dando il nostro indirizzo ai soccorsi. Quando mi resi conto che le gambe mi avrebbero nuovamente retto, mi alzai e misi a bollire dell’acqua. Qualche secondo dopo terminò la chiamata e si voltò guardandomi in silenzio. I suoi occhi sembravano enormi sul viso pallido.

«Vai su a prendere qualcosa di mio, prendi dei vestiti pesanti. Sto facendo un tè, dobbiamo tenerlo al caldo fino a quando non arriveranno i soccorsi.»

Bethli uscì di corsa dalla cucina e in quei minuti pregai Dio che quel povero ragazzo riuscisse a farcela. Mai più in vita mia avrei dubitato di Mary Lou, quella mucca si era appena guadagnata un posto d’onore nel mio vecchio cuore.

Carmen Weiz

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Ogni storia è un’esperienza indipendente (autoconclusiva), pronta a catturare il tuo cuore senza bisogno di essere letta in un ordine specifico.

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